Qualche
anno fa, una volta letto l’articolo molto bello, che riporto qui di
seguito, non avevo resistito, visto che sono di quella zona, alla
tentazione di dire, su un mio blog che a quel tempo non era solo di
fotografie come adesso, la mia. Ed oggi mi appresto a riprodurre sia
quei bei pensieri che le mie considerazioni di allora. Ancora un
aspetto: la località qui richiamata é, con certi suoi dintorni, Bevera,
frazione di Ventimiglia (IM), nell’estremo ponente di Liguria.
Era
così, mezzo secolo fa, la campagna intorno a casa, con la linea
ferroviaria dismessa, che prima della guerra collegava la riviera con la
Val Roja e Cuneo, dove ho vissuto i primi anni della mia infanzia. Era
il nostro territorio di gioco, quando non esistevano la televisione, i
videogiochi, i monopattini e avevamo a disposizione quei lunghi
pomeriggi estivi, assolati cieli alti e striduli dal frinire assordante
delle cicale che vegliavano su di noi appollaiate sui rami dei ciliegi.
Oltre
alle cicale non si sentiva altro, forse ogni tanto il latrato di un
cane. Né aerei, né automobili, né motopompe, né motozappe. Il lavoro in
campagna si svolgeva a mano e in silenzio. La terra si arava e dissodava
col magaglio, l’erba falciata con la “serra” a schiena curva, lavoro da
donne, il verderame alle viti veniva irrorato con una pompa di stagno,
fissata sulle spalle e azionata dalla mano dell’uomo. Anche la gente
allora era più silenziosa. Poche chiacchiere e a bassa voce. Strano come
nella mia infanzia non abbia mai udito urlare nessuno. Anche i gesti
erano misurati, dalla stanchezza che non concedeva sprechi.
Per
noi bambini c’era la terra, l’acqua, il cielo, le piante, gli animali
selvatici, gli odori e la ferrovia abbandonata, col cancello che
chiudeva il passaggio a livello ancora cigolante sui cardini che
spingevano con tutta la forza delle nostre braccia per poi saltarci
sopra appena presa la rincorsa.
Gli
odori. Lungo la massicciata cresceva rigogliosa una pianta infestante
dal fusto poco più grande di un pollice con le foglie lanceolate, non
ricordo il suo nome, ma l’ho sempre visto prosperare sui bordi delle
ferrovie. Ne spezzavamo i rami più teneri per costruirci la capanna, il
nostro rifugio segreto, imbrattandoci le mani del lattice bianco e
appiccicoso che sgorgava dalle ferite della pianta e ci impregnava di un
odore forte e nauseante che non ho mai dimenticato.
Oggi la ferrovia è stata ripristinata, ma la casa e la campagna non ci sono più.
Una ligure
Mi
ha colpito il testo in questione, perché nel luogo descritto passavo
talora anch’io all’epoca: tutto corrisponde! Aggiungo il fascino per me
bambino dei segnali ferroviari (antiquati) abbandonati, le spiegazioni
di mio padre su alberi (“L’acacia é pericolosa! Tua bisnonna per la
puntura di una spina d’acacia nel piede ha dovuto subire l’amputazione
dell’arto!”) e su piante, le discese al fiume per bere in foglie verdi e
fresche l’acqua sgorgante da polle litoranee. Qualche anno più tardi si
andava da quelle parti a tirare quattro calci al pallone: la zona era
ancora perfettamente fascinosa e si andava e tornava rasente il corso
del Roia per sentirci in piena natura.
Il
bel racconto allegato mi restituisce intatta la meraviglia che quei
siti in me suscitavano ancor prima della gentile autrice. Solo non
ricordo come facesse mio padre a portare sulla canna di una bicicletta da
bersagliere me e mio fratello (sì che eravamo piccolini!) sino a bere
dalle allora pulitissime acque del Roia, quelle che sgorgavano, come già accennato, tra le erbe profumate di una riva!
Nella
foto qui pubblicata appaio nell’aprile del 1955 a Bevera, per
l'appunto, in occasione di una delle nostre gite in bicicletta, qui
citate. In lontananza, un segnale - indistinto, certo! - dell’allora in
disuso, non ancora ripristinata dalle rovine della seconda guerra
mondiale, linea ferroviaria Ventimiglia-Breil-Tenda-Cuneo.